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Cultura

La civiltà contadina marchigiana degli anni sessanta/settanta:

La Voce del Passato Racconta

Ero ancora una bambina quando mio padre diceva, “se hai un pezzo di terra non devi temere nulla, potrai seminare il grano e avere il pane per nutrirti”.  Ha sempre creduto nella generosità della terra che dopo tanta fatica spesa nei campi sa ricompensarti  copiosamente coi suoi frutti.
Una vita vissuta nel sacrificio di ogni giorno si, ma  la nostalgia per i tempi ormai andati, per quei momenti così importanti,  strettamente legati allo scorrere delle stagioni  come la mietitura e poi la trebbiatura, l’aratura, la vendemmia  e così via è ancora  molto forte in lui così come in tanti altri della sua generazione che quasi improvvisamente si sono visti portar via di mano dalla meccanizzazione il lavoro manuale dei campi fatto con tanta cura, passione e dedizione.

Il sapore vero delle antiche usanze e delle vecchie consuetudini però, ed i valori che queste, pur sbiadite col trascorrere del tempo, hanno saputo generare, hanno tracciato un solco nel corso della civiltà contadina e queste tracce indelebili rimarranno vive nel  tempo, tramandate di padre in figlio. Come un narratore, seduto accanto al grande camino della nostra vecchia casa di campagna, mio padre ci racconta  i momenti più significativi della sua vita passata  quando il lavoro si mescolava all’allegria, al coraggio, all’altruismo e alla generosità.

“Si iniziava la mietitura del grano verso la fine del mese di giugno, il lavoro cominciava presto la mattina,  ci si recava nei campi con le falci, non appena le messi si erano asciugate dall’umidità della notte, poi si interrompeva nelle ore centrali del giorno quando la canicola  si faceva molto intensa, e  si riprendeva  nel pomeriggio fino a tarda sera.

Al termine della mietitura, con l’ausilio di carri trainati dai buoi, i covoni si trasportavano nell’aia, accuratamente pulita per l’occorrenza, e si procedeva così alla realizzazione di  “barche” (grossi cumuli di grano). Nel mese di luglio si effettuava la trebbiatura: la tournée della trebbia che veniva spostata di podere in podere trainata dai buoi aveva così inizio. La trebbiatura era scandita, come una forma di rito, da gesti e azioni secondo le ore del giorno.

A metà mattinata si faceva colazione con lonza, vino e ciambellone, la trebbia era sempre in azione, non veniva mai fermata, pertanto le soste venivano fatte a turni.  Mentre durante la giornata, a intervalli regolari, una persona addetta passava tra  gli operai  portando loro del vino e dell’acqua. La gioia più grande per un contadino consisteva nell‘udire  fischiare la sirena. In soli due momenti si ricorreva a questo  rituale. Il primo quando il raccolto aveva superato i 100 quintali di grano,  e dunque si voleva informarne tutto il vicinato. La soddisfazione era così grande che l’evento veniva festeggiato offrendo a tutti del vino  o addirittura dei liquori, se le possibilità economiche lo permettevano. Mentre il secondo momento quando si voleva avvertire il contadino del podere accanto  che la trebbiatura  era terminata e pertanto la trebbia sarebbe stata trasportata nella sua aia il giorno dopo. Al termine della giornata la stanchezza, anche se tanta, svaniva quando ci si riuniva tutti attorno alla tavola, collocata per l’occasione all’aria aperta, e finalmente si cenava con gusto  assaporando i piatti  che venivano   preparati  solo ed esclusivamente  per le grandi occasioni.

Le donne di casa, si avvantaggiavano fin dai giorni  precedenti, facevano il pane in casa, ammazzavano il gallo più grasso per fare il brodo dove venivano cotti poi i quadretti o i passatelli. Oche  e  conigli invece, opportunamente insaporiti, le prime con rosmarino e salvia, i secondi con finocchio selvatico - il tutto completato con aglio e una spruzzata di vino -   finivano in grosse pentole di coccio  ed infilati dentro il forno a legna.
Seguivano poi i contorni che consistevano in tutto ciò che l’orto  offriva nel periodo estivo: grandi insalate di pomodori, cetrioli e per finire patate arrosto. II vino, quello della vigna, la faceva da padrone:  grosse bottiglie di vino bianco  e nero venivano disposte sulla tavola a distanze regolari l’una dall’altra. La festa aveva così inizio”.
- Katia Calandra -